2. L'introspezione classica e il metodo psicanalitico |
Il capitolo II della Traumdeutung è dedicato al «Metodo di interpretazione dei sogni». È noto che questo metodo comprende essenzialmente due aspetti: 1) Si decompone il sogno nelle sue parti; 2) Il soggetto deve raccontare senza critica e senza reticenze tutto ciò che gli viene in mente a proposito di ognuno degli elementi del sogno. Si può rimaner sorpresi, e lo si è stati realmente, nel vedere Freud applicare un simile metodo. Infatti, dal momento che Freud non ha la benché minima voglia di studiare i sogni secondo i metodi fisiologici, dal momento che afferma chiaramente di voler usare i metodi psicologici, ci si poteva aspettare che si servisse dell'introspezione. Ora quella che Freud usa non è l'introspezione, bensì un metodo che può esser chiamato introspettivo solo tirando le cose per i capelli, e che, secondo lui, non è altro che una variante del metodo della decifrazione (ed. cit., p. 130). Non è mancata l'obiezione, per Freud, circa il carattere arbitrario del suo metodo. L'essenza di questo metodo, infatti, consiste nel far dire al soggetto tutto ciò che gli passa per la testa. D'altra parte, l'obiezione che gli psicanalisti normalmente fanno all'introspezione è che anche l'introspezione più raffinata non arriva ad eliminare la censura, e dal momento che lo scopo è proprio quello di eliminarla, è chiaro "che occorre sostituire l'introspezione con un altro metodo grazie al quale il pensiero sia meno falsificato dalla censura di quanto non lo sia nello stato di veglia. Il metodo consisterà allora essenzialmente nella creazione di uno «stato psichico che (...) abbia qualche analogia con lo stato anteriore all'addormentarsi e senza dubbio anche con l'ipnosi» (p. 128), e ciò perché «mentre ci addormentiamo, appaiono le "idee involontarie", a causa del rilassamento di una certa attività volontaria (e senza dubbio anche critica)» (ibid.). Di fatto, Freud esclude l'introspezione, poiché essa non potrebbe essere il metodo valido per una psicologia concreta, e il contrasto esistente fra l'introspezione e il metodo psicanalitico non è altro, ancora una volta, che un caso particolare dell'antagonismo fra la psicologia astratta e la psicologia concreta. 1. Prescindiamo pure da tutti gli argomenti contro l'introspezione e supponiamola perfetta: resta il fatto che l'introspezione non può darci altre informazioni che non siano quelle riguardanti la forma e il contenuto dell'atto che è oggetto della nostra introspezione. Ho dimenticato un nome che pure conoscevo bene; se ricorro all'introspezione dirò che provo una certa sensazione di disagio, ed allo stesso tempo una forte tensione interiore, la coscienza cioè di sapere e di esser privo contemporaneamente della formula verbale e dell'immagine; mi vengono in mente dei nomi, ma li scarto con una certezza piena di dispetto, e la coscienza di questa certezza, così come quella della mia ignoranza, mi rendono perplesso, finché, all'improvviso, senza sapere perché, ho una sensazione di rilassamento, come se d'un colpo avesse ceduto una qualche resistenza, ed appare infine la parola cercata, accompagnata da un sentimento di sollievo e di liberazione. Ecco che cosa posso imparare dall'introspezione. Ma ciò può evidentemente esser considerato sufficiente soltanto da parte di una psicologia astratta. Questa psicologia, che mette tanta cura nel descrivere con esattezza le più piccole sfumature di tutti gli stati che io ho provato fin dal momento in cui avevo constatato quella sorprendente dimenticanza, fino all'ultimo in cui appare finalmente la parola cercata, trascura totalmente la spiegazione del fatto stesso nella sua particolarità, ed attribuisce, senza altre inquietudini, tale fatto al caso. «Se non erro, uno psicologo al quale si chiedesse come mai accada tanto spesso di non ricordare un nome che pur si è certi di conoscere, si accontenterebbe di rispondere che i nomi propri si dimenticano più facilmente di qualunque altra cosa. Addurrebbe motivi plausibili per tale privilegio dei nomi propri, ma non farebbe ipotesi circa altre cause del fenomeno.» (S. Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, prefazione di Cesare L. Musatti, traduzione di Ermanno Sagittario, Torino, Boringhieri, 1965, p. 3.) Ciò significa che lo psicologo vorrebbe attribuire la dimenticanza a delle cause generali che, per quanto si faccia, non possono esser valide se non per una generalità, e non per il fatto preciso di cui appunto si sta parlando. E se Freud stesso parla di condizioni «più generali» cui tali processi possono essere sottoposti, non bisogna lasciarsi sviare da questo linguaggio, poiché Freud pensa soltanto a dei fattori generali, come la censura, la rimozione, ecc., ma la spiegazione che egli darà di ogni caso avrà appunto la pretesa di adattarsi al fatto da spiegare nella sua particolarità. Il postulato fondamentale di Freud, secondo cui tutti i fatti psicologici sono rigorosamente determinati, ha esattamente lo stesso significato. È quindi naturale che chi ricerca spiegazioni di questo genere non possa accontentarsi dell'introspezione. Infatti che cosa ho fatto nel mio esempio di introspezione? Ho considerato il fatto della dimenticanza per così dire da un punto di vista formale, come se fosse la dimenticanza di una cosa qualsiasi, o, peggio, come se la dimenticanza fosse opera di una persona qualsiasi. Non ho tenuto in alcun conto il fatto che avevo dimenticato proprio quella particolare parola, e che chi aveva fatto l'azione di dimenticare ero proprio io. Le mie constatazioni rimangono generali e non mi insegnano nulla, nel senso che io non so perché ho avuto tale dimenticanza, e perché l'ho avuta proprio in quel dato momento. Ma questa è proprio la natura dell'introspezione. Essa non è in grado di rispondere alle domande poste dalla psicologia concreta, dal momento che per far ciò è necessario prendere in considerazione le circostanze particolari della dimenticanza, sapere che cosa significa per me la parola dimenticata; bisognerebbe, in poche parole, considerare questa dimenticanza come un segmento della mia attività particolare, come un atto che, scaturito da me, mi caratterizza; bisognerebbe, in poche parole, penetrare il significato di tale dimenticanza. Ma non si giungerà mai a penetrare il significato della dimenticanza se non si possiedono i materiali necessari per far luce su di essa. Questi materiali, dovendo indicare il significato che tale dimenticanza ha per me, non possono evidentemente essere forniti da nessun altro all'infuori di me. Ora, questa è una cosa che non può esser fatta servendosi dell'introspezione, ma facendo esclusivamente ricorso ad un racconto. Freud deve dunque sostituire l'introspezione con il racconto. Essendo il fatto psicologico un segmento della vita di un individuo singolo, ciò che è interessante non è certo la materia e la forma di un atto psicologico, bensì il significato di tale atto, ed esso non può essere chiarito se non mediante i materiali che vengono forniti, attraverso un racconto, dal soggetto stesso. Bisogna notare che questo modo con cui Freud sostituisce all'introspezione il racconto non è semplicemente la sostituzione del punto di vista concreto al punto di vista astratto, ma anche quella del punto di vista oggettivo al punto di vista soggettivo, per usare questa antitesi classica, e per parlare in un linguaggio più moderno: attraverso l'uso del metodo del racconto, Freud sostituisce il punto di vista del «comportamento» a quello dell'«intuizione». Infatti, se si sostituisce l'introspezione con il racconto, il lavoro psicologico poggerà su dei dati «oggettivi». Il racconto costituisce un materiale oggettivo che può essere studiato dall'esterno. (Esiste, nella psicologia classica, un metodo che si può esser tentati di paragonare con il metodo freudiano: è il metodo dei questionari. Questo metodo può dare effettivamente dei risultati oggettivi. Ma quel che manca a coloro che lo usano è appunto una nozione concreta della psicologia: essendo astratte le domande che vengono poste, altrettanto astratte sono le risposte. Tale metodo ha potuto dare alcuni risultati validi solo nella misura in cui coloro che se ne sono serviti sono stati concreti loro malgrado.) Ma, si può obiettare, tale oggettività non è altro che un'oggettività banale. Il vero aspetto di tale oggettività, infatti, è dovuto solo al fatto che lo psicologo e il suo soggetto non hanno più per nulla, come invece accade nell'introspezione, la stessa funzione. Il soggetto che subisce la psicanalisi ignora l'interpretazione, e fin dall'inizio parla senza sospettare quale significato lo psicanalista coglierà nei materiali che gli vengono forniti. Lo psicologo introspettivo, al contrario, si aspetta dal suo soggetto uno studio già psicologico, ed è costretto a supporre sempre che il suo soggetto sia anch'esso uno psicologo. Questa, come ben si sa, è una differenza sorprendente rispetto a quanto accade nelle altre scienze: infatti il matematico non chiede ad una funzione di essere «un matematico», ma di essere semplicemente una funzione, ed il fisico non cerca nel rocchetto di Ruhmkorff un altro fisico, bensì semplicemente un rocchetto d'induzione. Lo psicanalista, appunto, non chiede al suo soggetto di cambiare, per così dire, il proprio modo di essere: gli chiede semplicemente di «lasciarsi andare» e di parlare. Il soggetto non deve occuparsi d'altro: il lavoro psicologico viene riservato allo psicologo; tale lavoro, d'altronde, non può esser compiuto dal soggetto. Infine, il metodo del racconto è oggettivo — e questo aspetto è ancor più importante del precedente — dal momento che lo psicologo è liberato da quel «mimetismo» che gli veniva imposto dalle regole dell'introspezione. Il «vero psicologo» deve, infatti, «rivivere simpaticamente gli stati d'animo del suo soggetto», senza di che l'introspezione non ha alcun senso, dal momento che essa si basa su dei fatti che possono essere colti soltanto dal di dentro. Nel metodo psicanalitico non resta più alcuna traccia di questa esigenza. Esso infatti vuole interpretare, determinare il significato del sogno, servendosi, ad esempio, dei materiali che vengono forniti dal soggetto. E così come il fisico non ha bisogno di trasformarsi in rocchetto per studiare l'induzione, allo stesso modo lo psicanalista non ha bisogno di avere dei «complessi» per ritrovare i complessi altrui, anzi gli è rigorosamente proibito di averne, visto che per diventare psicanalisti bisogna aver subito un'analisi completa. E ciò che è notevole è il fatto che, dato che lo psicanalista non cerca altro che l'interpretazione, egli raggiunge l'obiettività senza essere costretto a far ricorso a degli «schemi spaziali». Ma il metodo del racconto non si contrappone soltanto al carattere astratto e soggettivo dell'introspezione; esso rappresenta anche l'antitesi del realismo di quest'ultima. Non potendo dare altro che la forma e il contenuto dell'atto psicologico, l'introspezione ha un senso soltanto all'interno dell'ipotesi realista, e, infatti, la psicologia classica considera l'introspezione essenzialmente come una forma della percezione. Essa fa dunque corrispondere ai suoi dati una realtà sui generis, che è la realtà spirituale o la vita interiore, e l'introspezione deve farci penetrare in questa «seconda» natura ed informarci sulla sua situazione. I dati dell'introspezione, poi, dal momento che sono i dati di una realtà, suggeriscono delle ipotesi sulla struttura di questa realtà, e tali ipotesi sono anch'esse, naturalmente, realiste. Attraverso l'introspezione impariamo dunque che cos'è e che cosa succede nel mondo spirituale. Ora, è evidente che sempre ci è dato di conoscere la vita psicologica di un altro individuo soltanto sotto forma di «racconto» o sotto quella di «visione». Racconto, quando si tratta di usare il linguaggio (in tutte le accezioni del termine) come mezzo di espressione; «visione», quando si tratta di gesti o, in generale, di atti. Io sto scrivendo: si tratta qui di racconto, e, nello stesso tempo, di visione. Esprimo, con l'aiuto della scrittura, i miei «stati d'animo», di cui un certo numero possono essere intuiti attraverso una visione di ciò che faccio: dall'atteggiamento che assumo scrivendo, dalla mimica del mio volto, ecc. E il racconto e la visione hanno una funzione pratica e sociale, la loro «struttura» è, a causa di ciò, «finalista»: il linguaggio corrisponde in me ad una «intenzione significativa», e le azioni a un'«intenzione attiva». Ed è innanzitutto sotto questa forma «intenzionale» che il racconto e la visione si inseriscono nella vita quotidiana. Il racconto propriamente detto viene preso per quello che è; alla mia intenzione significativa corrisponde, negli altri, una «intenzione comprensiva», e, quanto alla visione, la vita corrente rispetta anche il suo piano. Io parlo, e la vita corrente non vede altro che l'intenzione significativa. Io tendo la mano per prendere la caraffa d'acqua, e gli altri me la passano. Nel primo caso, vengo capito; nel secondo, una «reazione sociale» risponde alla mia «azione», ed è tutto. In poche parole, nelle relazioni quotidiane non si esce dalla «teleologia del linguaggio» e si rimane sul piano dei significati, delle comprensioni e delle azioni reciproche. (D'ora in poi parleremo soltanto del modo in cui la psicologia classica tratta il «racconto». Ma si vedrà facilmente che tutto ciò che diremo può applicarsi altrettanto bene anche alla «visione».) La psicologia classica, invece, comincia proprio coll'abbandonare questo piano «teleologico» e col fare astrazione dall'intenzione significativa. Ciò che le interessa non è quello che il soggetto racconta, bensì quello che succedeva nella sua mente mentre egli parlava; le occorre dunque una certa corrispondenza fra il racconto e dei processi sui generis. Per trovare questi processi, essa non dispone, beninteso, di nient'altro che non sia il racconto, ma essa supera la difficoltà, sdoppiandolo. Avremo allora, da un lato, l'espressione e, dall'altro, la cosa espressa, ma altresì due ordini di esistenza, poiché la cosa espressa ha un modo di essere sui generis: essa è spirituale, è il pensiero. (È noto che un tempo si andava assai più lontano, e si era ammesso un parallelismo completo fra il linguaggio e il pensiero. Ma qualunque siano le raffinatezze delle teorie più recenti, vi si ritroverà sempre lo schema del procedimento che stiamo descrivendo.) Ora, è evidente come questo «pensiero», dal punto di vista del significato, non porti nulla di nuovo: il significato dell'idea e il significato della parola sono esattamente la stessa cosa. Soltanto, quando si parla del significato della parola, non è stata ancora abbandonata la teleologia del linguaggio, mentre il termine idea denota appunto la trasformazione del punto di vista teleologico in punto di vista realista. La psicologia classica sdoppia il significato per passare dal piano dei significati al piano dei «processi mentali». Esce dunque fuori dalla dialettica della vita corrente e trasforma in entità reali quelle che non sono altro, dal punto di vista di tale dialettica, che semplice strumento. Ci si obietterà che l'introduzione dell'idea porta qualcosa di nuovo, dal momento che appunto la parola non è altro che uno strumento del significato, e questo significato in se stesso ha bisogno di venir pensato in una coscienza individuale, prima di poter essere espresso. L'idea rappresenta dunque qualche cosa di nuovo: un atto psicologico che deve essere descritto e studiato. Ma questa obiezione non è altro che la descrizione del procedimento che viene portato avanti dalla psicologia classica, una volta che è già stato realizzato lo sdoppiamento del significato. Dopo lo sdoppiamento, infatti, lo psicologo prescinde completamente dall'intenzione significativa e si pone dal punto di vista del formalismo funzionale per descrivere il modo di produzione della cosa che viene espressa, il modo in cui essa viene vissuta; il significato in quanto tale non ha più alcuna importanza; qualunque sia la cosa pensata, soltanto il «pensiero» interessa allo psicologo. 2. Secondo noi, dunque, lo psicologo classico procede nel modo seguente: sdoppia il racconto significativo e trasforma la sua seconda copia in una realtà «interna». Invece di conservare quell'atteggiamento ordinario che si conviene alla teleologia delle relazioni sociali, egli tutto a un tratto vi rinuncia e cerca nel racconto l'immagine di non si sa bene quale realtà «interna». Questo è l'atteggiamento che egli assume ogni qual volta si trova di fronte al racconto di un altro. Ma lo riprende in seguito anche di fronte al proprio racconto. Il cambiamento consisterà allora soltanto nel fatto che egli non dovrà rinunciare tanto all'intenzione «comprensiva», quanto all'intenzione «significativa» e «attiva», e invece di effettuare lo sdoppiamento per un altro, egli lo compirà per se stesso. E una volta effettuato lo sdoppiamento, cercherà di descrivere la realtà interna dal punto di vista del formalismo funzionale. Dirà allora che compie l'introspezione su se stesso. L'introspezione o la riflessione non è dunque nient'altro che l'abbandono dell'intenzione significativa e attiva a vantaggio del formalismo funzionale, ed a questo cambiamento del punto di vista corrisponde un secondo racconto, il cui punto di partenza è costituito dal racconto significativo, considerato dal punto di vista realista e formale. Oggettivamente, dunque, l'introspezione non è nient'altro che un «secondo racconto», risultante dall'applicazione del punto di vista del formalismo funzionale al racconto significativo, e ciò che la psicologia cerca è precisamente la sostituzione al primo racconto, puramente significativo, di un secondo racconto che non ha più nulla a che vedere con la teleologia delle relazioni umane, e che quindi, da questo punto di vista, è puramente «disinteressato» e deve costituire la descrizione di una realtà sui generis. È necessario, insomma, scegliere fra due ipotesi. Si può dire per prima cosa che ciò che è primitivo è l'introspezione, poiché quelli che io conosco per primi sono i miei stati psichici, e se io presuppongo l'esistenza di certi stati psichici nei miei simili è soltanto grazie alla mia stessa esperienza interna. Se ciò è vero, è artificiale dire che io sdoppio il racconto, poiché non faccio altro che attribuire ai miei simili quegli stessi stati che, in me costituiscono realmente la seconda copia del racconto. Il procedimento fondamentale della psicologia introspettiva non sarebbe dunque lo sdoppiamento del racconto, bensì un ragionamento analogico. La seconda ipotesi consiste nell'ammettere che ciò che è primitivo è, al contrario, la realizzazione del racconto per mezzo dello sdoppiamento e non l'introspezione; questa, lungi dal rappresentare un atteggiamento spontaneo, non sarebbe allora altro che l'applicazione a se stessi di un atteggiamento voluto, assunto nei confronti del racconto significativo ad opera del «senso comune». E in questo caso ciò che caratterizza la psicologia non. è il ragionamento analogico, bensì lo sdoppiamento. Soltanto che questo sdoppiamento può andare o in direzione degli altri, o in direzione di noi stessi, ed è questo secondo caso quello che noi chiamiamo «introspezione». È noto che la psicologia fa propria la prima ipotesi. E, ancora, è questa ipotesi quella che ispira gli attacchi che vengono diretti contro di essa: è proprio il ragionamento analogico che i behavioristi rimproverano alla psicologia classica. Ora, diverse considerazioni ci orientano verso la seconda ipotesi. Prima di tutto bisogna distinguere l'introspezione quale essa è da un punto di vista di principio dall'introspezione quale essa è di fatto, poiché non bisogna confondere con le professioni di fede riguardanti l'introspezione quello che è il metodo introspettivo che viene usato attualmente e che è stato usato nel passato. Ora, quella che noi abbiamo presente è l'introspezione quale essa è e quale essa è data, e non le diverse promesse di introspezione. E, d'altra parte, occorre distinguere le «percezioni interne» semplici, come quella del dolore organico, o dei bisogni organici, quali essi si verificano nella continuità della vita quotidiana, dall'introspezione sistematica che viene usata in psicologia. Questa distinzione è necessaria, prima di tutto perché la «sofferenza» rientra nel campo della «vita», mentre l'introspezione rientra nel campo della conoscenza ma soprattutto perché l'introspezione, metodo psicologico, oltrepassa infinitamente i limiti della pura e semplice percezione ordinaria dei nostri stati «interni». Il fatto stesso di parlare della «percezione dei miei stati interni» implica già l'astrazione. La cosa immediata è la sofferenza, ma la sofferenza quale essa si produce nel concatenarsi degli avvenimenti della mia vita quotidiana. Se consideriamo la questione dopo averla così delimitata, noteremo forse che l'introspezione non nasce dall'interno in modo così spontaneo e sincero come gli psicologi hanno l'abitudine di dire. Infatti è chiaro che gli psicologi della generazione precedente, quando ci ripresentano il sillogismo nel capitolo intitolato «Psicologia del ragionamento», non ci rivelano nulla di veramente «interno», dal momento che è la logica, la logica di Aristotele, il cui metodo non ha nulla di introspettivo, quella che ci ha insegnato l'esistenza del sillogismo. È allora chiaro che se gli psicologi in questione credono di aver fatto la psicologia del ragionamento, ciò è unicamente dovuto al fatto che essi hanno sdoppiato il racconto. E dal momento che è assurdo affermare che il sillogismo sia un «dato immediato della coscienza», appare manifesto come, per lo meno in questo caso, l'introspezione sia giunta, per così dire, dal di fuori, e come il secondo racconto si sia costituito grazie al puro e semplice sdoppiamento del primo. È noto d'altronde come gli psicologi in questione confondessero continuamente introspezione e fantasticheria, come essi ricalcassero le loro realtà psicologiche sul linguaggio: la dimostrazione di tutti questi punti non costituisce forse una parte integrante della dottrina di Bergson? Soltanto che si pensa, e Bergson per primo, che vi sia un errore nel modo in cui ci si è serviti dell'introspezione, ma che la vera introspezione sia una cosa diversa. Ora, questa non è altro che un'ipotesi cui siamo trascinati a causa del carattere ingenuo del realismo psicologico. Ma non vi è nulla — ed è il meno che si possa dire — che condanni l'idea secondo cui quelli che si chiamano errori commessi nella pratica dell'introspezione non sono altro che la rivelazione della sua vera essenza, la quale appare tanto più chiaramente quanto più semplicisti sono coloro che ne fanno uso. Non sarebbe d'altronde la prima volta che il vero carattere di un procedimento scientifico appare con chiarezza proprio in una teoria già condannata. D'altra parte, Bergson ha fatto vedere come l'introspezione dei suoi predecessori non fosse sincera, come i loro racconti introspettivi si nutrissero della realizzazione di esigenze teoriche. Soltanto che egli non ha visto in tutto ciò altro che un errore evitabile e, dato il carattere della sua impresa, non poteva vedervi nient'altro. Ma, tutto sommato, la critica bergsoniana potrebbe benissimo significare che il carattere «esogeno» dell'introspezione è già stato dimostrato per un certo tipo di «secondo racconto», quello che fa entrare in scena i personaggi «statici». Ora, Bergson non fa altro, in realtà, che inaugurare un nuovo genere di secondo racconto, una nuova tecnica per elaborare drammi impersonali: egli lavora con dei personaggi «dinamici» e «qualitativi», i temi che sono sviluppati dal suo formalismo e il linguaggio in cui si esprime il suo realismo sono diversi, ma c'è veramente un'ignoratio elenchi nel supporre che questa sorta di secondo racconto sfugga alla critica che ha distrutto la prima, poiché proprio l'introspezione bergsoniana non è mai stata sottoposta ad un esame analogo a quello cui egli aveva sottoposto l'introspezione dei suoi predecessori. Ma ciò che compromette maggiormente la verosimiglianza dell'opinione classica è la preminenza dell'atteggiamento teleologico. Infatti la comprensione e l'interpretazione precedono, mentre la psicologia viene dopo. Ora, l'espressione e la comprensione non implicano né un'esperienza interna sui generis da parte di colui che si esprime, né la proiezione dei dati di questa esperienza nella coscienza di colui che viene compreso. Una simile interpretazione dell'espressione e della comprensione comporta non solo il realismo, ma anche tutti i procedimenti della psicologia classica. Ê sull'atteggiamento teleologico che viene ad innestarsi il realismo. Ed esso si esercita, dapprima, in generale: l'introspezione viene soltanto al terzo posto, e rappresenta l'applicazione a se stessi del realismo, il quale, in linea di principio, si esercita innanzitutto nei confronti degli altri. Si pensi ora al fatto che, anche storicamente, la nozione di introspezione non appare che relativamente tardi, ed allora la nostra ipotesi non sembrerà forse così assurda — o per lo meno ci si accorgerà che il problema che si pone non è quello della psicologia attraverso l'introspezione, ma quello della psicologia dell'introspezione. Comunque sia, questi sviluppi ulteriori oltrepassano i limiti del presente studio l. Quello che a noi qui interessa è il contenuto dell'introspezione, il paragone fra il contenuto del «secondo racconto» della psicologia classica e quello che viene fornito dalla psicanalisi. Ora, qualunque sia l'ultima parola riguardo al vero meccanismo dell'introspezione, rimane sempre valido il fatto che essa è unita indissolubilmente all'astrazione ed al formalismo. E ciò è sufficiente per discreditarla dinanzi ad una psicologia che vuol essere concreta e feconda. 3. Ciò che caratterizza, al contrario, il metodo usato dagli psicanalisti è il fatto che esso non comporta il procedimento realista che abbiamo cercato di descrivere. Lo psicanalista non abbandona il piano teleologico dei significati, e quindi non inventa un atteggiamento nuovo e paradossale, come la riflessione. Il suo scopo è un altro: egli vuole continuare nell'atteggiamento della vita di tutti i giorni, fino al momento in cui esso raggiunge il piano della psicologia concreta; cerca non tanto di trasformare in «realtà» il piano del significato, quanto di approfondirlo per ritrovare, in fondo ai significati collettivi convenzionali, i significati individuali che non rientrano più nella teleologia ordinaria delle relazioni sociali, ma che sono rivelatori della psicologia individuale. Anche lo psicanalista avrà dunque un «secondo racconto» da contrapporre al racconto puramente significativo. Soltanto che il suo secondo racconto non risulterà dalla disarticolazione del primo, e ne rappresenterà solo l'approfondimento. Ed ancora una volta, in linea di principio, non verrà presa in considerazione altro che l'intenzione significativa, ma sarà un'intenzione significativa che non ci condurrà nella regione delle interazioni sociali, bensì nella psicologia dell'individuo concreto. In poche parole, il secondo racconto della psicologia classica ci conduce verso le realizzazioni, mentre quello della psicanalisi semplicemente verso l’interpretazione. «Le teorie scientifiche dei sogni non tengono conto di alcun problema di interpretazione, poiché nella loro concezione un sogno non è affatto un atto mentale, ma un processo somatico che segnala la sua presenza attraverso delle indicazioni registrate nell'apparato mentale» (p. 123). Per la teoria scientifica che è astratta, e per la quale le rappresentazioni hanno un'esistenza tutta propria, non può porsi il problema dell'interpretazione. Interpretare, infatti, non significa altro che ricollegare il fatto psicologico alla vita concreta dell'individuo. Per Freud, al contrario, non può non porsi il problema dell'interpretazione, dal momento che egli ritorna appunto ad una concezione concreta della psicologia. Visto che la teoria «scientifica» considera il sogno in modo astratto, per essa tutto il sogno è contenuto interamente nelle formule verbali che costituiscono il racconto stesso del sogno. Di conseguenza, il racconto fatto dal soggetto non potrà esser completato da questa teoria se non mediante un racconto che sia conforme al punto di vista formale. Essa non avrà alcun bisogno di far intervenire l'ipotesi di un contenuto manifesto e di un contenuto latente. Freud, al contrario, considera il sogno come un «fatto psicologico nel pieno senso della parola», come un segmento della vita concreta individuale; deve dunque ammettere che le formule verbali non esprimono nel racconto ciò che esse esprimerebbero se fossero staccate dal soggetto, ma che esprimono appunto qualche cosa che appartiene al soggetto; sarà costretto a risalire al di là del significato convenzionale delle formule di cui si serve il sogno, per ritrovare appunto la vita individuale concreta. Egli dovrà dunque contrapporre al racconto in termini convenzionali un racconto fatto in termini di esperienza individuale; al racconto superficiale, un racconto profondo: sarà costretto a introdurre la distinzione fra ciò che il sogno sembra esprimere e ciò che esso significa realmente. Il racconto convenzionale Freud lo chiama contenuto manifesto, e la traduzione di questo racconto in termini di esperienza individuale, contenuto latente (cfr. cap. II e passim). Se si vuol capire la psicanalisi in tutta la sua specificità è necessario approfondire questa distinzione. Non è sufficiente, a questo proposito, dire che il suo carattere concreto consiste essenzialmente nell'adozione del punto di vista del significato. Tale punto di vista, in se stesso, è ricco infatti di applicazioni che possono andare, come accade in Spranger, in una direzione assai diversa da quella che noi vorremmo qui indicare. A Freud piace ripetere che il modo con cui la psicologia classica ha l'abitudine di caratterizzare il sogno, dicendo che esso è incoerente, stravagante, illogico, in breve privo di senso, dipende dal fatto che essa aveva l'abitudine di prendere in considerazione soltanto il contenuto manifesto del sogno. E, infatti, dopo aver propinato al sogno qualche attributo poco lusinghiero, la psicologia classica passa immediatamente alle constatazioni formali e funzionali. E fa ciò, certamente, in modo conforme a quei procedimenti astratti che abbiamo cercato di descrivere. Nella teoria del sogno, tuttavia, le teorie classiche non fanno completamente astrazione dal significato, visto che, al contrario, è proprio la constatazione dell'impossibilità di dare un senso ad una costruzione così pazzesca come il sogno che ha dato origine allo schema delle teorie del tipo di quella di Binz o di quella di Dugas. Ora, alla base di questo atteggiamento, esiste un postulato «implicito», e cioè che i termini con cui il soggetto racconta il proprio sogno abbiano il loro contenuto ordinario; che quando, ad esempio, compare la parola chiave, il suo significato coincida con quello indicato nei dizionari. E, in modo più generale, i fatti psicologici, anche quando sono attualmente «psicologici», non hanno mai altro significato che non sia il loro significato convenzionale e, per così dire, «pubblico». Parlo con una signora, e all'improvviso mi asciugo le labbra: questo non ha altro significato che non sia quello del «gesto-in-generale-di-asciugarsi-le-labbra», e tutto ciò che la spiegazione psicologica potrà fare sarà un resoconto conforme al punto di vista del formalismo funzionale. Ed è sempre questo postulato ad essere alla base di tutti i giudizi che vengono dati su quei fatti psicologici che sembrano eludere il loro significato convenzionale. Il sogno è incommensurabile con le categorie di significati convenzionali, e dunque non ha alcun senso. Ho dimenticato un nome proprio che conosco molto bene: la psicologia classica vede in ciò soltanto un richiamo mancato, e quindi qualcosa di puramente negativo. Ci troviamo dunque di fronte ad un vero e proprio postulato generale della psicologia classica, il postulato della convenzionalità del significato. Quando Freud dice che la psicologia classica non vuol prendere in considerazione altro che il contenuto manifesto, vuol mettere in evidenza il fatto che è intervenuto tale postulato. Quest'ultimo è intimamente legato al realismo e all'astrazione. Traccia la via del realismo ed apre la strada all'astrazione ed al formalismo. Apre la strada all'astrazione perché quelli che vengono realizzati sono i significati convenzionali, dato che il realismo procede per sdoppiamenti e dato che ciò che viene sdoppiato è il significato convenzionale. Io dico «perché». Per gli psicologi questo denota un «sentimento di relazione». D'altra parte, una volta realizzato il significato convenzionale, entrano in gioco l'astrazione ed il formalismo funzionale. L'astrazione, perché la realizzazione in una coscienza individuale determinata non cambia nulla a questo stesso significato, ed il fatto che esso si venga a trovare in questa coscienza e proprio ora non ha per la psicologia classica alcuna importanza; sia che si tratti di me che di qualcun altro, la psicologia classica fa sempre le stesse identiche constatazioni. Queste constatazioni vengono fatte nello spirito del formalismo funzionale. Si tratterà di ricollegare il significato realizzato alla sua «classe»: si ricollegherà il «perché» alla classe dei «sentimenti di relazione», e si descriveranno in seguito le circostanze generali della produzione ed il modo in cui tale sentimento di relazione è «vissuto». È noto che certi psicologi hanno speso notevoli dosi di sottigliezza in questo genere di esercizio. Si può così capire come la psicologia classica si rivolga ancora una volta verso la qualità, e come essa non possa ricercare l'individualità dei fatti psicologici se non nell'irriducibilità qualitativa dell'atto nel quale essi vengono vissuti. E così tutto avviene, per essa, come se tutte le coscienze individuali avessero esattamente lo stesso contenuto di significati, come se ogni coscienza individuale non fosse altro che l'intuizione di significati che sono sempre gli stessi ed uguali per tutti; significati che l'intuizione coglierebbe senza cambiarvi nulla. È evidente che, stando così le cose, non vi sia altro che «contenuto manifesto», cioè significati convenzionali, e che tutto il lavoro effettivo rimanga riservato al formalismo funzionale: come si potrebbe spiegare altrimenti il fatto che gli psicologi si disinteressano del «significato» e si dedicano unicamente allo studio astratto e formale del significato realizzato? Il punto di vista del significato, infatti, è troppo gravido di conseguenze, ed avrebbe puramente e semplicemente trascinato la psicologia a fare delle scoperte psicanalitiche. Comunque sia, non si può certo dire che in Freud abbia agito una grazia particolare quando egli ha scoperto la psicanalisi: si trattava «semplicemente» di accorgersi che il metodo classico della psicologia si infrangeva contro certi casi privilegiati che esigevano un punto di vista concreto, ed un simile punto di vista avrebbe portato chiunque a fare le medesime scoperte. E non si venga a dire che anche la psicologia classica ha conosciuto il punto di vista in questione. Le nostre affermazioni precedenti sono perfettamente giustificate. È veramente troppo facile mostrare come una scoperta, una volta che è stata fatta, non sia caduta dal cielo come una meteora, ma che esistevano dei segni che la preannunciavano. Ma perché allora si è dovuta attendere la scoperta per accorgersi delle «annunciazioni»? È vero tuttavia che, una volta compiuta la realizzazione, nella psicologia classica interviene il punto di vista del significato. Ma vi interviene soltanto per comando dell'astrazione e seguendo il postulato del significato convenzionale. Per comando dell'astrazione, quando si tratta di preparare i materiali dello studio psicologico. Una volta compiuta la realizzazione, si procede ad una prima trasformazione: a seconda dei loro significati, si riconducono i termini del racconto a nozioni già classificate. Ho appena esclamato: «Accidenti! un altro fiammifero che non si accende!» — «Accidenti» significa «stato affettivo», «un altro» «sentimento di relazione», «fiammifero» «immagine», «non si accende» «percezione». Il tutto costituisce un «giudizio». Ci si darà da fare allora per capire se vi è stata analisi o sintesi; sintesi preceduta da un'analisi o analisi preceduta dalla sintesi primitiva della percezione, ma, comunque sia, il significato sarà già scomparso. So che tutto ciò non ha più nulla a che fare con la psicologia «moderna»; so che ho spezzettato, e che ho dato troppa importanza agli elementi solidi; ma anche se si dice che in tal modo è stato semplicemente tradotto in formula verbale un atteggiamento unico ed indivisibile, o un'altra cosa del genere, rimane il fatto che non viene più accordata alcuna attenzione al significato, mentre invece viene rivolta in direzione dello studio formale delle funzioni o degli atteggiamenti: soltanto il linguaggio cambia, ma il procedimento rimane lo stesso. La psicologia classica conosce anche dei significati individuali. Ma questi si riferiscono soltanto al modo in cui il fatto psicologico viene vissuto dall'individuo, alla sua «unicità» qualitativa. Ora, questo «ineffabile» che dovrebbe rappresentare il summum del concreto rientra nel campo del formalismo funzionale e non contiene di fatto alcuna determinazione propriamente individuale: quel concreto che esso rappresenta non è altro che un concreto in generale. Ma il vero ruolo che ha il «significato» nella psicologia classica appare soltanto se noi approfondiamo maggiormente l'analisi del postulato del significato convenzionale. Abbiamo appena mostrato in qual modo tale postulato sia legato ai procedimenti fondamentali della psicologia classica. Ma ci si può chiedere quale sia l'origine di tale postulato. Il realismo consiste nello sdoppiamento del significato convenzionale, cioè nella sua proiezione all'interno. Il problema del significato viene così eliminato una volta per tutte, poiché è proprio al significato convenzionale che appartiene la realtà psicologica, dal momento che è appunto questa ad essere proiettata sullo schermo della vita interiore. Ma, d'altra parte, per quale motivo quello che viene realizzato è proprio il significato convenzionale? Ciò che in linea di principio è primitivo è, come abbiamo detto, la teleologia delle relazioni umane. Ma il «senso comune» adotta, nei confronti di questa teleologia, lo stesso realismo ingenuo che adotta nei confronti dei «dati della percezione». La differenza consiste soltanto nel fatto che la percezione è sdoppiata verso il «di fuori», mentre il significato convenzionale lo è verso il «di dentro», ma in entrambi i casi vi è un'«ipostasi», ed al realismo ingenuo della metafisica corrisponde il realismo ingenuo r della psicologia. Si può vedere chiaramente come l'essenza di tale realismo sia costituita dall'«antropomorfismo sociale». Quello che viene infatti realizzato come fatto spirituale è il valore collettivo del linguaggio e degli atti. E tale realismo è ingenuo, dal momento che proprio il passaggio dal punto di vista della finalità sociale alla realtà attuale viene effettuato senza alcuna giustificazione, e con una certa spontaneità. D'altronde, di fatto, non esiste alcun «passaggio»: tale realismo esprime la «gelosia della Società»: l'individuo non è altro che l'adempimento delle esigenze sociali; in altri termini, la categoria della «Realtà» si apre dapprima, in modo del tutto naturale, soltanto all'aspetto sociale delle cose. La psicologia classica, servendosi del postulato del significato convenzionale, non è altro che la continuazione dell'atteggiamento che è proprio di questo realismo ingenuo. Si sarebbe potuto scoprire che tale atteggiamento è conveniente alla scienza. Ma, di fatto, le cose non stanno così e tutte le scienze se ne sono liberate. Soltanto la psicologia l'ha conservato. D'altronde essa assai difficilmente si libera dalle esigenze sociali, ed il postulato in questione non è l'unico esempio del fatto che tali esigenze si sono trasformate in realtà. Se Freud ha dovuto far tanta fatica per fare accettare l'idea della sessualità infantile, ciò è dovuto appunto al fatto che medici e psicologi si sono ostinati nel voler vedere nel bambino soltanto ciò che egli deve essere in conformità con determinate rappresentazioni collettive ben note a tutti. Comunque sia, il fatto che gli psicologi conservino un atteggiamento che è condannato da tutti gli scienziati è la dimostrazione di come il loro stile non sia ancora sufficientemente «impeccabile» per un lavoro veramente scientifico. Malebranche diceva: «La nostra ragione può anche essere cristiana, ma il nostro cuore è pagano». La stessa cosa accade agli psicologi: essi parlano della scienza, la imitano, ma non l'amano. 4. Il postulato della convenzionalità del significato non ha d'altronde il benché minimo rapporto con l'esperienza. Le differenti «dialettiche» di cui una parola può essere portatrice ci vengono date, da una parte, dal linguaggio, e, dall'altra, dallo stato delle scienze; esse possono venir catalogate in qualsiasi epoca. È evidente che per costruire tale catalogo non è necessario alcuno studio propriamente psicologico, dal momento che tutto viene dato dai documenti oggettivi nel senso più semplice della parola. Ora, grazie al postulato della convenzionalità del significato, la psicologia presuppone appunto che tali dialettiche, il cui elenco può esser fatto senza alcuna consultazione dei dati realmente soggettivi, siano le sole che esistano. È dunque a ragion veduta che noi parliamo di «postulato», dato che la credenza di cui si sta parlando non ha potuto essere stata suggerita dall'esperienza, visto che, a causa dell'astrazione, non è neppure stato possibile porre ad essa la questione. Di conseguenza, l'idea che possa esistere una dialettica puramente individuale, dalla quale gli atti individuali traggano un significato puramente individuale, è totalmente estranea alla psicologia classica: essa non può concepire che, ad esempio, la parola, inserita nella rete di significati di un contesto individuale, possa acquistare una funzione significativa originale, nello stesso modo in cui, presa in una rete di significati convenzionali, acquista un significato convenzionale. I significati convenzionali, beninteso, non vanno posti tutti sullo stesso piano. Essi costituiscono, al contrario, degli strati sovrapposti che vanno dai significati assolutamente convenzionali verso quei significati che lo sono sempre meno e che presuppongono sempre più l'esistenza di un'esperienza individuale. Si potrebbe persino costruire, per ogni termine, una specie di «piramide dei significati», una piramide capovolta, la cui base sarebbe rappresentata dal significato che il termine ha per tutti, e la cui cima dal significato che esso può avere esclusivamente grazie all'esperienza di un singolo individuo. Fra il vertice e la base vengono a porsi quei significati che, pur non essendo determinati dall'esperienza di un solo individuo, non appartengono però a tutti. «Cappello», ad esempio, significa «copricapo» per tutti; «regalo» soltanto per alcuni e «parti sessuali del marito» esclusivamente per quella signora di cui Freud ha analizzato il sogno nella Traumdeutung. Nella vita pratica noi siamo costretti ad interpretare. Senza di ciò diventa impossibile quell'adattamento reciproco che viene richiesto dalle relazioni umane. Tutti i significati, ad eccezione del significato propriamente individuale, ci vengono forniti dall'esperienza collettiva. Impariamo che il cappello è un copricapo e che se ne può fare un regalo a qualcuno: ci troviamo qui di fronte a delle induzioni che ci forniscono i materiali per le nostre interpretazioni quotidiane. Ma queste interpretazioni non oltrepassano i significati convenzionali se non in via eccezionale, poiché sono fondate su delle induzioni spontanee che ci rivelano soltanto ciò che può riprodursi in modo manifesto nella vita sociale. La stessa «psicologia scientifica» non va più lontano. Essa si ferma a quelle induzioni spontanee che ci rivelano i significati convenzionali e non va alla ricerca di altro: ecco perché è così poco profonda. La psicanalisi, al contrario, non se ne accontenta: quello che la sua interpretazione ricerca è proprio il significato individuale. Il suo metodo ha un bell'apparire fantasioso ed arbitrario: esso non fa altro, in realtà, che portare sempre più avanti quelle interpretazioni che noi pratichiamo tutti i giorni, ma invece di rinchiudersi nei limiti tracciati dalla teleologia delle relazioni umane e dalle induzioni spontanee che possono fornire del materiale che serve soltanto per trovare il significato convenzionale, la psicanalisi organizza un'indagine per ottenere quei materiali che sono necessari alla costruzione del significato individuale. Il metodo psicanalitico non è dunque altro che una tecnica che permette di approfondire, in conformità con le esigenze della psicologia concreta, i significati. È partendo da questo punto di vista che devono essere spiegati i diversi procedimenti che la costituiscono. 5. Dal momento che ciò che a noi interessa è il significato individuale dei termini del racconto, occorre affrontare il sogno come un testo che deve essere decifrato. La struttura del significato intimo, infatti, nella misura in cui è un significato, è esattamente la stessa di quella del significato convenzionale, e quando vogliamo trovare la prima non dobbiamo procedere diversamente di come quando cerchiamo di stabilire un significato qualsiasi. Ci occorrono dunque degli elementi e dei punti di riferimento; ci occorre, in breve, un contesto. D'altra parte, se esistono dei significati intimi, è perché l'individuo possiede, per così dire, una esperienza segreta. Bisogna dunque che noi possiamo penetrare in questa esperienza segreta, ed evidentemente potremo penetrarvi soltanto nella misura in cui il soggetto ci fornirà i materiali di cui essa è costituita. Donde la necessità di quello che è il procedimento fondamentale del metodo freudiano: le libere associazioni. Questo termine «associazione» può creare un malinteso, o, piuttosto, un'illusione. In Freud esiste tale illusione, e questo fatto è stato sfruttato da coloro i quali, pervasi dal «mobilismo moderno», sobbalzano ogni volta che vedono soltanto apparire la parola «associazione». Ma di fatto, esiste una notevole dose di grettezza in questo modo di tirarla tanto per le lunghe con la storia della superiorità del «fluido» sul «solido», e sarebbe davvero cosa saggia occuparsi ora di problemi più importanti, tanto più che quelle sono soltanto due versioni diverse della stessa mitologia. Comunque sia, nelle «libere associazioni» non esiste né associazione, né libertà. La psicologia ha preso l'abitudine di parlare di associazione ovunque non esista un'intenzione significativa coscientemente riconosciuta e ovunque il soggetto non si ispira in modo esplicito ad alcuna dialettica. Io sto scrivendo; sono cosciente di un'intenzione significativa e sono in qualche modo portato, attraverso una dialettica che è quella delle mie idee, verso la questione che sto trattando. Ma supponiamo che all'improvviso io mi fermi e che io rinunci tanto alla mia intenzione significativa quanto alla mia dialettica. Non per questo la mia «coscienza» si vuoterà, ma si succederanno delle idee, avrò forse anche una grande quantità di idee, ma non ho più nulla «da dire», e le mie idee non vengono più organizzate da una di quelle leggi che danno abitualmente ai nostri pensieri la loro «struttura», e cioè posso dire che non ho più alcuna intenzione significativa, e che il susseguirsi dei miei pensieri non è più conforme ad alcuna delle dialettiche «classiche», cioè convenzionali. Allora si dirà che io ho delle associazioni, e ci si immagina che le idee si susseguano in conformità con certe affinità, che sono d'altronde puramente meccaniche. Appare dunque molto chiaramente che, in quell'esempio, si parlerà di associazione soltanto perché non è stato possibile riconoscere alcuna delle dialettiche classiche, e che quindi se ne parlerà in virtù del postulato della convenzionalità del significato. L'idea secondo cui, se noi ignorassimo la dialettica convenzionale, quella che noi abbiamo l'abitudine di considerare come una successione razionale ci apparirebbe sotto la forma di una «polvere mentale» (come quando, ad esempio, gli ignoranti dicono che gli scritti dei filosofi difficili sono «arabo») e secondo cui, di conseguenza, se parliamo di associazione e di polvere mentale, è forse perché ignoriamo quale sia la dialettica che agisce una volta che noi abbiamo rinunciato a qualsiasi dialettica intenzionale, è estranea alla psicologia classica. Ora, risulta dagli «esperimenti di associazione» che mai le «serie associative» se ne vanno alla deriva, bensì che il soggetto gira sempre attorno a determinati temi intimi. «... Non è vero — dice Freud (p. 507) — che siamo trasportati lungo una corrente di idee senza scopo quando, nel processo dell'interpretazione di un sogno, abbandoniamo la riflessione e permettiamo che emergano i pensieri involontari. Si può mostrare che ci possiamo liberare solo delle idee intenzionali che ci sono note; appena abbiamo fatto ciò, le idee sconosciute — oppure, come diciamo impropriamente, "inconsce" — assumono l'incarico e da quel momento determinano il corso delle immagini involontarie. Nessuna influenza che riusciamo a far pesare sui processi psichici ci permetterà mai di pensare senza idee intenzionali; né conosco alcuno stato di disordine psichico che possa farlo». È dunque evidente come Freud tenda ad optare per l'ipotesi contraria a quella della psicologia classica: egli parte precisamente dal presupposto che anche quando abbiamo rinunciato ad ogni intenzione significativa e ad ogni dialettica convenzionale, il nostro pensiero continuerà ad esser governato da una dialettica e ad esprimere un'intenzione significativa, ma questa dialettica e questa intenzione sono originali, non sono cioè più convenzionali, bensì intime. Il pensiero, dunque, continua ad avere un significato anche quando, convenzionalmente, non vuole averne alcuno. Esso ha dunque una struttura, anche quando sembra aver rinunciato a qualsiasi struttura, e, per questo stesso motivo, è altrettanto ricco d'insegnamenti di come quando esso funziona in conformità con le dialettiche convenzionali. Non vi è dunque alcuna necessità di parlare di associazione, e non è neppure una cosa logica parlarne. E tuttavia Freud lo fa altrettanto quanto gli psicologi tradizionali. Per quanto riguarda gli psicologi, si conosce ora qual è il procedimento che porta alla loro illusione. Si prendono i termini del racconto e se ne proietta il contenuto nella «vita interiore» per realizzacelo e per trasformarlo in idea. Viene quindi rovesciato l'ordine degli avvenimenti, e si immagina che i fatti abbiano percorso una strada inversa a quella dell'analisi: la parola esprime l'idea, e se le parole si sono concatenate ciò è dovuto al fatto che le idee, di cui le prime sono il veicolo, si erano originariamente «associate». E quanto a Freud, egli parla di associazione dapprima in virtù di questo procedimento, e, d'altra parte, perché, in conformità con le esigenze della psicologia classica, egli, come si può vedere molto chiaramente dal passo che abbiamo citato poco sopra, vorrebbe tradurre in linguaggio associazionista la supposizione, o piuttosto il fatto fondamentale sul quale si fonda il suo metodo. Ora, adottando il procedimento associazionista, Freud abbandona l'ispirazione vera e propria del suo metodo. Egli non dovrebbe interessarsi ad altro che ai significati delle formule verbali che costituiscono il racconto. Non dovrebbe dunque allontanarsi dal piano teleologico per cadere nel realismo; egli deve limitarsi all'interpretazione ordinaria del linguaggio, e non oltrepassare il significato per penetrare nella vita interiore. Quando lo psicanalista chiede dunque al soggetto di dire tutto ciò che gli passa per la testa, senza alcuna critica e senza alcuna reticenza, non gli chiede altro che di abbandonare tutte le incastellature convenzionali, di rinunziare ad ogni tecnica e ad ogni arte per lasciarsi ispirare dalla sua dialettica segreta. Per quanto riguarda ora il sogno, questo rappresenta appunto una creazione di questa dialettica personale; ecco perché costituiva un mistero per la psicologia classica, che voleva affrontarlo secondo il postulato della convenzionalità del significato. E, dal momento che le cose stanno così, l'analisi del sogno non può far altro che utilizzare degli stati che hanno un'origine simile, nei quali cioè si ritrovi nuovamente la dialettica personale. Ed il racconto, partendo dagli avvenimenti del sogno, deve mostrarci appunto il modo in cui questi si inseriscono nell'esperienza segreta dell'individuo. Da questo paragone fra l'introspezione ed il metodo psicanalitico scaturisce un insegnamento essenziale. Vi sono due modi di utilizzare il «racconto» del soggetto. Lo si può disarticolare mediante l'astrazione ed il formalismo per proiettarlo in un modo o nell'altro nella vita interiore. Questo è l'atteggiamento della psicologia classica. Oppure si possono utilizzare i dati psicologici semplicemente come il contesto di un significato che noi ricerchiamo: si può qui riconoscere l'atteggiamento della psicanalisi. Ne deriva una conseguenza molto importante per l'atteggiamento dello psicanalista stesso: gli sono proibite le ipotesi di struttura. Egli non ha alcun diritto, dato il vero carattere del suo atteggiamento, di andare alla ricerca di meccanismi, poiché, per quanto sia in questo momento paradossale questa affermazione, la psicanalisi ci orienta in direzione di una psicologia priva di vita interiore. Soltanto, si vedrà più oltre come Freud, così come abbiamo potuto vedere a proposito della rappresentazione che egli si fa del meccanismo del racconto, non si sia accorto di questa conseguenza del suo atteggiamento. |